Lati oscuri e sfide inedite della nostra epoca

Il segno più evidente della modernità è forse il venir meno della fede, della fiducia nell’intervento divino negli affari terreni. In tutte le epoche precedenti aveva dominato la convinzione che le nostre vite fossero, almeno in parte, in balia degli dei o degli spiriti, che si potevano influenzare con preghiere e sacrifici e richiedevano complesse forme di culto e obbedienza. Da allora, ci siamo dedicati sempre più a comprendere gli eventi naturali attraverso il filtro della ragione. Niente più presagi o rivelazioni, maledizioni o profezie: la chiave per interpretare il futuro si trova nei laboratori, non nei luoghi di culto.

E qui si verifica una sorta di paradosso. Certamente non da un giorno all’altro ma nell’arco di qualche decennio, abbiamo cominciato a percepirci sempre più liberi di scegliere, decidere, agire e determinare i nostri percorsi. Questa nuova dimensione di libertà ha alimentato l’idea della responsabilità come attitudine a interagire in modo attivo e proattivo con il contesto, personale e professionale, tentando sempre di plasmarlo secondo i nostri desideri e le nostre aspirazioni.

Questo meccanismo ha alimentato però anche il lato oscuro della responsabilità, normalmente intesa come l’idea che successo e fallimento rappresentino delle conseguenze inevitabili e inalienabili del proprio agire. L’idea stessa di meritocrazia viene codificata in tempi relativamente recenti e si tratta di un sistema che dovrebbe consentire a ciascuno di superare gli sbarramenti di classe per occupare il posto che merita nella società. Tradizioni e background familiare non dovrebbero più costituire un limite a ciò che l’individuo può ottenere. Il concetto di meritocrazia però, porta con sé una fregatura: se davvero crediamo in un mondo nel quale chi merita di arrivare in cima arriva effettivamente in cima, di conseguenza dobbiamo credere in un mondo nel quale chi è in fondo merita di essere in fondo.

C’è quindi un piano inclinato che ci fa inesorabilmente scivolare tutti verso una sottile e moderna forma di schiavitù che deriva da quella libertà prima citata (eccolo il paradosso): nella misura in cui abbiamo interiorizzato l’idea che in fondo molto dipende da noi, finiamo per essere schiavi del nostro continuo, alle volte eroico, altre volte penoso, sforzo di auto-realizzazione nel senso inteso dalla modernità.

Il tassello troppo spesso trascurato in questo scenario connotato di un individualismo che mostra sempre più le sue derive oscure, è quello rappresentato dalla comunità. Quella stessa comunità che era pronta e disponibile a indulgere nei confronti di coloro che fallivano, credendo che un ruolo cruciale nelle sorti umane lo giocasse anche il soprannaturale. Quella stessa comunità di cui le persone si sentivano orgogliosamente parte esprimendo un’identità di gruppo che ridimensionava, in senso positivo, il successo del singolo ascrivendolo in parte anche al contributo della comunità stessa.