Quando nasce la giustizia

Noi esseri umani abbiamo inventato la società civile perché da questa società civile siamo in grado di trarre gran parte del nostro sostentamento, di colmare, cioè, la distanza tra ciò che desideriamo e ciò che potremmo procurarci da soli. Grazie a questa invenzione possiamo, quindi, gestire una tale innaturale congiunzione di debolezza e di bisogno. 

È la forza della cooperazione, la divisione del lavoro, è l’evoluzione culturale più di quella naturale che ci ha resi capaci di fare le cose insieme, di unire sistematicamente le nostre forze e, in questo modo, di superare i limiti individuali che la natura ci ha imposto.

La società compensa tutte le nostre debolezze; e sebbene in questa situazione si moltiplichino continuamente i nostri bisogni, pur tuttavia le capacità aumentano in misura ancora maggiore, e ci lasciano, da tutti i punti di vista, più soddisfatti e felici di quanto sia mai possibile divenire in una condizione solitaria e selvaggia.

Una società civile, la vita in comune, che trova il suo stesso fondamento nel fatto che con l’aiuto reciproco siamo meno esposti al caso e alle disgrazie. Ed è proprio questa la ragione, il supplemento di forza, capacità e sicurezza che giustifica la nascita della società e ne rende stabile l’esistenza. Una stabilità che, tuttavia, può continuamente essere messa a rischio dalla crescita dimensionale dei gruppi umani.

Mentre per le prime società, infatti, la benevolenza reciproca tra i membri della propria famiglia poteva essere sufficiente ad imbrigliare l’azione di vizi ed avarizia, al crescere del numero dei membri delle comunità, tale forza risulta via via insufficiente. A causa, dunque, della benevolenza limitata e del rischio che questa renda precaria la nostra condizione di vita, si assiste alla generazione artificiale della virtù della giustizia.

Ricordiamo la posizione secondo cui il nostro egoismo viene stimolato dalla sproporzione dei nostri bisogni rispetto alle nostre capacità di soddisfarli. Desideriamo, cioè, più di quanto non siamo in grado di procurarci da soli. Una delle conseguenze più rilevanti di questa sproporzione è la necessità di distinguere i nostri beni da quelli degli altri. Di separare ciò che è mio da ciò che è tuo. A questo fine è necessario introdurre il concetto di proprietà. Quindi distinguiamo tre tipologie di beni: la soddisfazione intima della nostra mente, i vantaggi esterni del nostro corpo e quei beni che abbiamo acquisito con il nostro lavoro e la nostra buona sorte.

Mentre i beni del primo tipo non ci possono essere sottratti, quelle del secondo tipo, invece, possono, ma questi non sarebbero, comunque, di nessuna utilità per chi dovesse entrarne in possesso. Solo il terzo tipo di beni, quelli che derivano dal frutto del nostro lavoro, possono esserci sottratti e goduti anche da terzi. Da questo deriva il fatto che proprio tali beni sono i più fragili ed esposti alla violenza altrui quanto alla possibilità di passare da una persona a un’altra senza subire nessuna perdita o alterazione. Allo stesso tempo tali beni sono limitati e insufficienti a soddisfare i bisogni e i desideri di tutti. Ne deriva che, mentre la maggiore disponibilità di questi stessi beni rappresenta uno dei vantaggi principali derivanti dalla vita associata, allo stesso tempo l’instabilità del loro possesso, ne costituisce l’ostacolo principale. Maggiore abbondanza, quindi, di beni il cui possesso, però, è incerto.

La soluzione a tale problema non può derivare dalle virtù naturali, perché proprio queste stanno alla base dell’instabilità della vita in comune. Il rimedio, invece, viene dall’artificio. Infatti quando gli uomini, in seguito alla loro prima educazione nella società, siano giunti a rendersi conto dei vantaggi infiniti che derivano dalla vita della società civile e abbiano inoltre acquisito una nuova tendenza alla compagnia e alla conversazione: e una volta che si siano accorti come il principale motivo di turbamento nella società sorga da quei beni che chiamiamo esterni e dal loro continuo e instabile passare da una persona all’altra, dovranno cercare un rimedio ponendo questi beni, per quanto è possibile, sullo stesso piano dei vantaggi fissi e costanti della mente e del corpo. Ciò non si può fare altrimenti che mediante una convenzione tra tutti i membri della società, e cioè quella di conferire stabilità al possesso di questi beni esterni e di lasciare che ognuno goda in pace di tutto ciò che riesca ad acquisire casualmente o con il suo lavoro.

L’idea di fondo è che attraverso un processo evolutivo che avanza, prima per tentativi ed errori e, successivamente, grazie alla socializzazione e all’educazione, si stabilisce in maniera convenzionale la regola del rispetto della proprietà altrui affinché possa sapere di poter godere dei frutti del proprio lavoro in tutta tranquillità. La nascita della proprietà e la regola che ne impone il rispetto derivano da una consapevolezza generale per l’interesse comune, consapevolezza che tutti i membri della società esprimono l’un l’altro, e che li induce a regolare la loro condotta in base a certe regole. Osservo che è nel mio interesse lasciare a un altro il possesso dei suoi beni, purché egli agisca nello stesso modo nei miei confronti. Anche l’altro è consapevole di un analogo interesse a regolare la sua condotta. Quando ci si esprime reciprocamente questa consapevolezza dell’interesse comune, così che essa risulti nota a entrambi, allora essa produce una risoluzione e un comportamento adeguato.

Emerge qui la dimensione strategica della giustizia. Mentre l’effetto delle virtù naturali può essere rappresentato attraverso l’immagine della costruzione di un muro nel quale ogni azione si somma all’altra per produrre il bene comune, le virtù artificiali, come la giustizia, non si sommano, ma si moltiplicano. Se anche uno solo dei termini diventa zero, tutto il prodotto, allora, si azzererà.

La giustizia ha natura strategica e convenzionale: io rispetto la tua proprietà perché mi aspetto che tutti gli altri membri della comunità facciano lo stesso e, a loro volta, ciascuno degli altri rispetterà le regole di giustizia proprio perché si aspettano che tutti gli altri facciano lo stesso.

In conclusione, la giustizia deriva dalla scarsità dei beni a disposizione degli uomini, dai loro appetiti sproporzionati, dalla divisione del lavoro, dai benefici che possiamo trarre dalla vita in comune e infine, al fondo della questione, dalla nostra considerazione per il nostro interesse personale.