Uscire dalla nostra crisi

C’è una distanza, normale e fisiologica, tra quel che siamo e quel che vorremmo essere. Ma c’è anche una distanza tra quel che siamo e quel che pensiamo di dover essere.
La prima riflette un’ambizione a esprimere qualcosa di profondamente nostro, che ci contraddistingue, che sta nell’essenza di quel che ci piace dell’essere noi. La seconda riflette le aspettative sociali, il brodo di cultura in cui siamo cresciuti, i valori di altri a cui noi teniamo, il modo in cui veniamo disegnati.

Definizioni, comunque ricche e articolate, di quel che dovremmo essere in quanto uomini o donne, a una certa età, con un certo tipo di ambizioni, determinati comportamenti, le scelte sottostanti, gli atteggiamenti, le parole e finanche l’abbigliamento: quel che pensiamo di dover essere si estende a quasi ognuna delle cose che facciamo, indirizzandole oppure marcando, appunto, una distanza.

Oltre una certa distanza, iniziano i sensi di colpa e di inadeguatezza. Il dover essere è un genitore severo che silenziosamente giudica da dietro le quinte di una coscienza sociale e culturale che ci fa sentire al sicuro, ci fa sentire “normali”. Da lì a sentirsi in trappola, però, il passo è breve.

Dietro a molte inaspettate dimissioni, a cambi di rotta, a nuove scelte, c’è una ribellione alla mancanza di senso del dover essere. Il tessuto sociale si slabbra inaspettatamente quanto più si avvicina al quotidiano: cambiamo lavoro, cambiamo direzione, cambiamo qualsiasi cosa, spinti più dall’insensatezza di gesti quotidiani che da una visione alternativa del futuro. Sono i nostri gesti quotidiani, alla fine, ad aver bisogno di senso: alzarsi a una cert’ora, infilarsi nel traffico, rispettare delle prassi, obbedire agli ordini impliciti dei nostri ruoli, senza sentire che stiamo girando, come criceti, nella ruota.

Per questo nelle transizioni, i cui effetti durano anni, quel che vorremmo essere torna a farsi vivo, ci ricordiamo che c’è. Non tanto come una presenza chiara, ma come un’assenza. Non è mai arrivato il momento per definirlo appieno: sia che siamo adulti, giovani o anziani. A ogni età della vita c’è una corrente da seguire per sentirsi al sicuro: un passo che nasce solo per portarci al successivo. È il movimento a farci sentire in equilibrio, non la certezza della direzione.

Il tema del sé, il vero sé, il sé ideale, il sé preferito, il sé autentico, è oggetto di studi da parte della disciplina psicologica, e gli psicologi per primi ammettono di non aver trovato una formula che dica se una persona sa chi è, o se poi sceglie di essere chi è. Di certo, si sa che è vasta la complessità dell’essere umano dalle molte facce e che quindi ricercare un senso unico, ultimo e coerente del sé è probabilmente un’utopia.

Quindi è vero che quel che eravamo fino a ieri andava bene. Eravamo quel che volevamo essere e quel che sentivamo di dover essere. Non era poi così necessario sapere veramente ed essenzialmente chi eravamo. Ma nei momenti di cambiamento, allora sì che la domanda emerge e una risposta urge, e così non basta più sapere chi dovremmo essere secondo la nostra comunità e nei termini della nostra società. Ed è la nostra opportunità per tornare alla prima domanda: chi vogliamo essere?

E sì, allora possiamo cambiare idea: non importa quanto lunga sia già stata, noi possiamo cambiare strada. Possiamo farlo se il cuore regge all’autoconsapevolezza necessaria per guardarsi veramente dentro: per vedere allo specchio quel che c’è. Ed è uno sguardo che fa paura, perché potrebbe rivelarci che quel che fino a ieri andava bene oggi ci fa sentire in trappola, e che possiamo scegliere di essere qualcosa di diverso.