Felicità e giustizia

La giustizia è condizione indispensabile per la società e non si può essere veramente felici se non ci si assume la responsabilità delle conseguenze che le nostre azioni hanno su di noi e sugli altri.

Un tiranno può fare tutto ciò che gli piace ma non può scappare dalle conseguenze delle sue azioni ingiuste: sarà sospettoso di tutti, perderà gli amici veri e vivrà nella costante paura di essere assassinato.

Potrà fare tutto ciò che vuole ma certamente non sarà un uomo felice.

Commettere ingiustizia è il maggiore di tutti i mali e certamente non si vorrebbe né subire un’ingiustizia né, tantomeno commetterla, ma se si dovesse per forza commetterla o subirla, sarebbe preferibile piuttosto subirla che commetterla perché soltanto chi è onesto e buono, uomo o donna che sia, è felice, e l’ingiusto è malvagio e infelice.

Si potrebbe a questo punto sottolineare che sono le leggi a definire ciò che è giusto o ingiusto e che queste sono fatte dalla maggioranza dei deboli per via della paura che questi hanno dei più forti.

In realtà la giustizia è altra cosa è, assieme alla saggezza, una componente dell’armonia.

La saggezza è ciò che ci consente di percepire e rispettare i limiti verso sé stessi – quasi una forma di continenza – mentre la giustizia è, invece, il rispetto dei limiti verso gli altri, verso l’equilibrio e la stabilità della vita in comune.

La giustizia del singolo e quella della comunità vanno a coincidere, essendo il primo, cellula costitutiva della seconda.

Una società giusta è una società stratificata e differenziata nella quale ogni componente esercita le sue virtù, cooperativamente, per la stabilità e il bene della comunità politica.

Una giustizia distributiva, dunque, nella quale ad ogni componente della società spetta ciò che merita. Solo società giuste trovano forme di divisione del lavoro sostenibili e durature.

L’ingiustizia, la disuguaglianza e l’opportunismo, al contrario, minano alla radice la convivenza tra diversi.

Si potrebbero considerare tre tipi di beni: i beni che hanno un valore intrinseco, indipendente dai possibili vantaggi che possono derivare dal loro possesso.

Di tal modo sono il provare gioia e tutti quegli innocui piaceri che non comportano nulla in futuro se non la gioia di provarli.

Poi ci sono quei beni che amiamo sia per sé stessi, sia per i vantaggi che ci possono arrecare, come ad esempio avere intelligenza, vista e salute.

Infine, ci sono quei beni che siamo felici di possedere non per sé stessi, ma esclusivamente per i vantaggi che arrecano, come fare ginnastica, essere curati in caso di malattia, esercitare la medicina e praticare le altre attività rivolte a far denari.

E dove poniamo la giustizia?

Nella migliore, quella che chi aspira alla felicità deve amare per sé stessa e per i vantaggi che comporta. Non è certo così che pensa la gente comune.

La pongono nella specie dei beni che costano fatica, di quei beni che si devono praticare per avere mercede e buona reputazione, ma che per sé stessi sono da evitare come molesti.

La giustizia non è un bene in sé, ma un mezzo per raggiungere un altro fine.

Il giusto si comporta da giusto in maniera strumentale solo per averne vantaggi, onori e coltivare la sua reputazione.

Nel suo intimo nessuno considera un bene la giustizia, ché anzi ciascuno, dove crede di poterlo fare, commette ingiustizia.

Privatamente ogni uomo giudica assai più vantaggiosa l’ingiustizia che la giustizia.

E così i padri e tutti quelli che hanno cura di qualcuno, ammonendo dicono che bisogna essere giusti, ma non elogiano la giustizia per se stessa, bensì la buona reputazione che ne deriva: e questo perché per tale apparenza di giustizia la buona fama ottenga loro cariche pubbliche e matrimoni.

Anche chi pratica la giustizia, dunque, lo fa malvolentieri e solo perché è incapace di commettere ingiustizia.

Concediamo a tutti e due, al giusto e all’ingiusto, di fare qualunque cosa vogliano, poi seguiamoli e osserviamo dove ciascuno sarà tratto dal suo desiderio.

Coglieremo il giusto nell’atto di dirigersi verso la medesima mèta dell’ingiusto, spinto dalla voglia di soverchiare altrui, cosa che tutti per natura ricercano come un bene e da cui s’astengono solo perché la legge li costringe a rispettare l’uguaglianza.

È il rispetto della legge e il timore delle conseguenze di una violazione l’unico elemento che differenzia il giusto dall’ingiusto, nessun valore intrinseco, nessuna virtù individuale, nessun tratto morale.

La giustizia è una costruzione artificiale, una finzione sociale che trae origine dalla paura delle conseguenze di una violazione.

Nessuno, potendo essere ingiusto impunemente, si asterrebbe.

Privatamente ogni uomo giudica assai più vantaggiosa l’ingiustizia che la giustizia.

E ha ragione: così almeno dirà chi sostenga tale principio.

Ed infatti, l’ingiustizia che è fondata sull’ignoranza non può mai essere più forte della giustizia che si fonda sulla sapienza.

Le implicazioni sociali poi sono fondamentali perché l’ingiustizia alimenta conflitto e discordia e mina alle radici la stabilità della polis luogo nel quale, unicamente, si può condurre una vita felice.

Una società ben ordinata in cui viene rispettato e preservato nel tempo l’equilibrio tra le classi sociali, presuppone individui che vivono vite armoniose; e viceversa.