Il carcere e la rieducazione del condannato

Articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». “Rieducazione del condannato”: sì, condannato; ma condannato al fine della rieducazione.

La quale è parola di profonda serietà; e tutto ispira, o dovrebbe, il cammino della giustizia penale.

Il fine supremo della rieducazione, se impone alla pena detentiva una misura che permetta di adempiere così arduo dovere, più ammonisce a ridurre e circoscrivere i reati colpiti con perdita della libertà personale. Onde ne sorge il terribile interrogativo: come rieducare, ossia restituire alla coscienza della libertà, l’uomo che ha perduto la stessa disponibilità del proprio corpo? non è forse la coercizione fisica intimamente avversa alla rieducazione dello spirito?

Questo è il dilemma, che emerge da quella lettera sconsolata; e va oltre il caso singolo fino a inalzarsi a essenziale problema del nostro stare insieme, del comune riconoscerci in un principio costitutivo. Vi vibra un’ansia di unità, che non separa il colpevole dal mondo, ma piuttosto ve lo riconduce mostrando che stava nella sua libertà di diversamente volere. «Quando il giudice giudica e punisce, non si volge propriamente all’altro da sé, ma a se stesso, e giudica e punisce se stesso in quanto umanità. Perché possa parlarsi veramente di pena, il giudice non deve essere estraneo al delinquente, né questo a quello: è l’uomo che in essi pecca e si redime». Il rieducare esige, come sempre, l’unità interiore tra i soggetti, sicché l’uno si riconosca nell’altro, e insieme trovino le aspre vie della libertà.